L’Italia si è sempre fatta un vanto di avere un alto numero di imprenditori e le Marche eccellono nella classifica delle regioni. Se questo è stato certamente un punto di forza, il lato oscuro è che dietro molte ragioni sociali si nascondono aziende che non riescono a crescere o rimangono in condizioni di marginalità. Questo avviene specie nei settori maturi, tradizionali araldi del “made in Italy”. Posso testimoniarlo di persona: negli ultimi vent’anni molte aziende leader del settore dell’arredamento sono rimaste pressoché al palo, mentre un numero consistente è stato travolto dalla crisi, perlopiù per il fallimento della transizione generazionale. Solo alcuni (pochi) “outsider” hanno spiccato il volo, ma senza raggiungere le dimensioni dei concorrenti tedeschi, americani o scandinavi. Nei distretti produttivi italiani la nascita di nuove aziende si è verificata in genere per gemmazione imitativa da quelle esistenti, senza vere innovazioni del modello di business. Si tratta di un limite che ha contribuito al nanismo della struttura produttiva ed è all’origine del vero male dell’economia nazionale: la caduta della produttività ed il conseguente impoverimento del sistema produttivo e sociale del Paese. Inoltre non riusciamo, come pure altri compagni di crisi del sud Europa, a creare campioni nei settori tecnologicamente avanzati, internet in particolare. Un recente articolo dell’Economist sottolinea come l’Europa in genere (anche se in dosi differenti) faccia fatica ad accogliere aziende destinate a diventare star, come Google, Facebook o Amazon. Secondo il Global Entrepreneurship Monitor , un non profit che raccoglie e compara dati da vari paesi, l’Italia è ora in forte ritardo anche sul numero di “start-up”: gli imprenditori in fase di avvio sono solo il 2,3% della popolazione, contro il 5,8 della Germania, il 7,6% degli USA e il 17% della Cina. Nell’analizzare le cause di questa abulia, vengono individuati una serie di fattori:
1. una generale maggiore avversione al rischio e sfiducia nel proprio paese come generatore di opportunità future. A questo contribuisce senz’altro l’invecchiamento della popolazione e il degrado politico-istituzionale;
2. leggi fallimentari che marchiano l’insuccesso imprenditoriale (in buona fede) come una colpa morale, protraendo i tempi di riabilitazione e di fatto scoraggiando l’assunzione di rischio. Nel Regno Unito la riabilitazione del fallito avviene in un anno. Da noi forse in 10;
3. la scarsa disponibilità di “venture capital” per il finanziamento di nuove attività ad alto potenziale e rischio, specie dopo lo scoppio della “bolla dei .com” nel 2000. E’ anche un problema culturale, specie in Italia, dei nostri banchieri. Scarseggia specialmente il “seed capital”, i 2-4 milioni che servono a trasformare un’idea in modello di business, mentre superata questa fase selettiva è il denaro americano ad essere più accessibile che quello locale. Per gli Americani però non è facile avventurarsi nella giungla giuridica e familistico-amicale italiana, per non parlare delle mafie e della corruzione;
4. i vincoli della legislazione previdenziale e del lavoro: gli start-up ad alto rischio hanno bisogno di maggior flessibilità in uscita del personale;
5. la legislazione fiscale, che scoraggia o rende onerose forme di incentivo basate sui guadagni in conto capitale (azioni gratis o opzioni sul loro acquisto) particolarmente efficaci in questi casi;
6. l’assenza pressoché totale di strutture ben organizzate di “incubazione” di imprese innovative, che consentano al neo-imprenditori si avvalersi di competenze comprovate mentre si concentrano sullo sviluppo della propria formula imprenditoriale;
7. la debolezza, tranne poche eccezioni, delle agenzie di supporto al trasferimento tecnologico e al collegamento tra università ed imprese ;
8. la mancanza di programmi di educazione all’imprenditorialità nelle nostre scuole ed università, al contrario di quanto avviene nel mondo anglosassone e nelle business school dei paesi emergenti;
9. la burocrazia soffocante per aprire e gestire un’impresa, insopportabile in particolare per chi è assorbito nello sforzo dell’innovazione. L’analisi suggerisce facilmente le risposte.
Ma che di che cosa parla la politica oggi in Italia? Della legge elettorale e dei capoluoghi delle nuove Province.
Luca Romanelli – www.lucaromanelli.it