Il fermano Candido Augusto Vecchi ebbe, come ha già sottolineato il nostro amico rotariano Giovanni Martinelli nel suo libro “100 illustri personaggi del fermano”, un ruolo di primo piano nella spedizione dei Mille, fornendo, all’amico e “fratello” Garibaldi (infatti appartenevano entrambi alla Massoneria, Comunione Italiana, di cui quest’ultimo ne diventerà Gran Maestro nel 1882) oltre alla sua villa Spinola, presso lo scoglio di Quarto, dove Garibaldi pose il suo quartier generale, anche denaro e suppellettili ed anche un buon contingente di armi. Dopo l’impresa dei Mille, nella primavera del 1861, Garibaldi era stato eletto deputato al Parlamento Subalpino, e l’8 aprile di quell’anno, in una delle sue poche apparizioni in Parlamento, durante una tempestosa seduta, lanciò durissime accuse al governo in carica. Il mestiere di politico non si addiceva a Garibaldi e infatti subito dopo lasciò Torino per ritirarsi nella sua amata Caprera, attorniato dai fidi amici e compagni di battaglia. Fra i suoi segretari, costantemente all’opera nella “casa di ferro”, c’era il Colonnello Candido Augusto Vecchi, il difensore della Repubblica Romana, già ”verificatore dei conti” dell’Associazione Nazionale Italiana a Parigi presieduta da Giuseppe Mazzini, che proprio in quell’anno dava alle stampe il suo “Garibaldi a Caprera”, edito dapprima a Torino, l’anno successivo a Napoli, e successivamente a Stoccolma, Utrecht, Lipsia e Londra nelle traduzioni in svedese, olandese, francese, tedesco e inglese. Nella piccola Caprera, ove arrivavano quotidianamente centinaia di lettere e moltissimi giornali e gazzette, giungevano dalla lontana America notizie sull’inizio della guerra civile fra gli Sati Uniti del Nord e gli Stati Confederati d’America, i cosiddetti “sudisti”. La guerra civile americana era anche una guerra di principi e si combatteva anche per la libertà degli oltre tre milioni e mezzo di negri, schiavi dei latifondisti del sud, e per abolire lo stato di schiavitù. Questi grandi avvenimenti non potevano non entusiasmare Garibaldi, che una sera, a cena con i suoi compagni, fece cenno ai sogni di libertà di quegli infelici schiavi, manifestando il rammarico di non essere lì anche lui a combattere per la loro causa. La cosa fu raccolta da Candido Augusto Vecchi che, senza dir nulla al Generale, scrisse a New York al giornalista Theodore Tuckermann lanciando l’idea che Garibaldi, al momento “disoccupato”, avrebbe potuto combattere a favore degli Stati Uniti. “Le mie idee, insapute al nostro capo - scriverà poi il Vecchi – le feci note ai miei amici, che le plaudirono al cielo.” . Sembrava una cosa buttata lì, ma Tuckermann, che aveva conosciuto l’Eroe dei Due Mondi dieci anni prima, durante il suo esilio americano, prese la cosa sul serio. Alla fine di Agosto, dopo cauti contatti epistolari, giunse a Caprera l’ambasciatore americano a Bruxelles, Sanford, che, su incarico del Segretario di Stato Seward, e quindi con la piena approvazione di Lincoln, propose a Garibaldi di assumere il comando in un’armata nordista nella guerra di secessione. Garibaldi , colto di sorpresa, ripose che avrebbe valutato l’offerta. La cosa ovviamente lo allettava e lo lusingava, ma ora che l’Italia era fatta, gli restava ancora da vedere realizzato il suo sogno mai sopito: quello di vedere Roma capitale del regno. Prima di dare una risposta, comunque, inviò il Colonnello Gaspare Trecchi dal Re per avere il suo consenso. Sperava in cuor suo che il sovrano, ora che Cavour era morto da appena due mesi e che erano cessati gli attriti col suo avversario di sempre, gli negasse il permesso e che per dissuaderlo gli offrisse qualche comando in Italia. Ma il re rispose che non aveva nulla in contrario e che era libero di partire quando voleva. Garibaldi, deluso dall’indifferenza di Vittorio Emanuele, ebbe subito l’impulso di partire, ma quando il 12 settembre si presentò a Caprera il Ministro degli Stati Uniti Marfh per conoscere la sua decisione, era già deciso a rifiutare. La notizia, frattanto, si era già diffusa e da ogni parte veniva scongiurato di non partire; da Napoli, che lo aveva eletto deputato, giunse il Generale Carbonelli con una petizione a firma di 22.000 elettori. Ben sapendo che non potevano essere accettate, Garibaldi pose due condizioni: avere il comando supremo dell’esercito e poter proclamare egli stesso l’abolizione della schiavitù, cosa che Lincoln farà poi nel 1865 con il 13° emendamento. Gli fu spiegato che per la costituzione americana il comando supremo dell’esercito spetta al presidente e che l’abolizione della schiavitù, essendo una decisione politica, deve anch’essa promanare dal Presidente ed essere poi ratificata dal Congresso. Gli fu proposto quindi il grado di Generale di Divisione e il comando autonomo di un’armata con la prospettiva di successiva nomina a Maggiore Generale, il massimo grado del’Esercito, secondo solo a quello assunto dal Presidente. Ma Garibaldi rifiutò l’offerta perché, come spiegherà dopo, avrebbe combattuto “…solo per l’abolizione della schiavitù piena e senza condizioni”. Una cosa è certa, se Garibaldi, invece di rimanere a Caprera, avesse tentato la sua terza avventura americana, forse le grandi cariche delle giacche blu del 7° Cavalleggeri sarebbero divenute dei prorompenti assalti delle Camicie Rosse. (Questo scampolo di storia minore è stato ricordato in occasione della manifestazione di chiusura delle celebrazioni del bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi tenutasi Lunedì 27 aprile 2009 al Palazzo di Vetro dell’ONU presso il Dag Hammarskjold Library Auditorium e all’Istituto Italiano di Cultura a New York, alla presenza e con l’intervento anche di Kerry Kennedy, figlia di Robert Kennedy). Fonte ANSA