In Spagna è molto facile licenziare, ma la disoccupazione supera il 20%. In Germania è invece piuttosto difficile ed i sindacati siedono nei Consigli di Vigilanza delle aziende del modello renano. Il tasso di disoccupazione tedesco è tuttavia sensibilmente inferiore a quello italiano. E’evidente che la facilità di licenziare non garantisce la piena occupazione.
Michael Porter, uno dei guru dell’economia d’impresa, nel suo magnifico Il vantaggio competitivo delle nazioni identificava nella difficoltà di licenziare uno dei fattori “selettivi” che inducono le imprese italiane ad investire in innovazione di medio-lungo periodo per aumentare la produttività. Il clima economico era quello, ancora effervescente, della fine degli anni ’80, mentre ora le prospettive sembrano molto diverse: la globalizzazione spinge a ripensare profondamente le filiere produttive piuttosto che ottimizzarle.
Nel ragionamento di Porter, tuttavia, si dispiega una verità da tenere sempre presente: le aziende che operano in settori ad alto contenuto di conoscenza o tecnologia hanno l’esigenza di conservare e qualificare nel tempo le loro risorse umane, molto di più di quella di potersene liberare a piacimento. L’economia della Germania è forte perché ha molte imprese di questo tipo. Non sorprende quindi che il suo sistema produttivo promuova il consenso con i lavoratori ed il sindacato.
Nei settori dove la competizione è maggiormente basata sui costi di una manodopera meno qualificata, la possibilità di un loro rapido aggiustamento può costituire un vantaggio competitivo. Ma questi sono i settori che in ogni caso la globalizzazione spinge fuori dai paesi avanzati.
Innumerevoli analisi ci dicono da tempo che l’economia italiana è debole sul primo versante, dove la competitività si costruisce anche motivando e attivando la spinta creativa dei lavoratori piuttosto che terrorizzandoli con la paura di perdere il lavoro.
Ma è proprio così difficile licenziare in Italia?
Chiudere un’azienda, o ridimensionarla, non è mai stato un grosso problema da noi. E’ più difficile in Francia ed in molti casi negli Stati Uniti. Gli accordi tra sindacati e Confindustria e la legge del 1991 sui licenziamenti collettivi prevedono solo procedure conciliative e non vincolanti, svolte le quali l’imprenditore è libero di licenziare.
Il totemico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che impone il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa (cioè per colpa) o giustificato motivo (cioè per esigenze organizzative dell’impresa) si applica a non più del 25% dei lavoratori dipendenti italiani. Questa percentuale è in calo da decenni insieme con la dimensione media delle aziende. Quando nasce un conflitto, nel 93% dei casi la causa si conclude con l’allontanamento del lavoratore ed il pagamento di un’indennità. Qual è il problema allora? A meno che non si sostenga che mettere uno in mezzo alla strada senza una ragione fondata sia bello, specie in Italia, dove la rete di protezione per i disoccupati è tra le meno generose in Europa.
La legislazione sui contratti di lavoro atipici, inoltre, ha dotato da tempo le imprese (e gli enti pubblici) italiani di strumenti legali per creare il loro “esercito industriale di riserva” e uno strato di precariato (in gran parte giovanile) in grado di assorbire quasi immediatamente le oscillazioni della domanda.
Ma allora può essere che il problema sia diverso: si sta creando una frattura tra lavoratori decentemente protetti dall’arbitrio e una massa di senza speranza che perde progressivamente anche la motivazione a costruirsi non solo una “carriera” ma anche un percorso professionale di arricchimento nel tempo delle proprie competenze, cioè proprio quello di cui una moderna economia post-industriale ha bisogno.
Gli studiosi più attenti di diritto del lavoro, come Pietro Ichino, propongono una revisione complessiva del sistema delle relazioni industriali che semplifichi l’adeguamento organizzativo delle aziende, vincolandole allo stesso tempo ad assumersi la responsabilità della formazione dei dipendenti (in caso di spostamento a diverse mansioni) o del loro ricollocamento in caso di dismissione. In questa direzione si colloca l’idea di un contratto unico di lavoro che riduca l’area del precariato ai casi dove esso ha maggiormente senso (lavori a progetto, apprendistato per i giovani), ricomponendo una frattura sociale che si va pericolosamente allargando (si pensi agli indignados). Alla riforma contrattuale si deve affiancare il sostegno pubblico nella fase di ricollocazione dei lavoratori in esubero, con adeguate tutele economiche ed incentivi alla riqualificazione professionale.
Questa prospettiva richiede pensiero e capacità di governo del sistema, da parte della politica e delle forze sociali, non slogan. Pensare di polverizzare il diritto del lavoro affidandolo ad accordi aziendali (il famoso art. 8 della manovra estiva) senza un quadro di riferimento nazionale rischia di alimentare ulteriormente una giungla dei diritti dove risentimento e confusione regnano sovrane.
Ma il coraggio delle riforme serie questo Paese ce l’ha?
Luca Romanelli –