La cultura dominante nell’Occidente ci porta a dare quasi per scontato che l’economia è il campo di applicazione della ricerca egoistica del profitto. I corsi universitari di economia politica ci parlano di solitari homines economici che incrociano la propria funzione di utilità con altrettanto avide funzioni di offerta delle imprese per determinare un inconsapevole quanto potente equilibrio complessivo del sistema. L’economista Stefano Zamagni, uno degli estensori della Caritas in Veritate di Benedetto XVI, è tra i più autorevoli studiosi a proporre l’alternativa di un’economia del bene comune. La base antropologica è la stessa che sottende alla vocazione rotariana del service: il bene dell’uomo non può essere autentico se non è il nostro bene, se non realizza cioè, almeno tendenzialmente, il bene di tutti gli uomini e di tutta la persona, nelle sue varie dimensioni e aspirazioni, tra cui quella liberatoria del dono di sè. La ricerca esclusiva dell’ “utilità” individuale non è solo una trappola di infelicità ma genera gravi scompensi sociali ed economici, come suggerisce la recente crisi finanziaria globale. Zamagni ricorda come alla fine del Medio Evo i Francescani, paradossalmente, siano stati tra gli inventori della moderna idea di mercato. Fra Luca Pacioli, a Siena, inventò la partita doppia, in un contesto in cui, in Toscana, le prime banche nascevano con la benedizione del suo ordine. I frati contemplantes e laborantes furono tra i primi casi di forza lavoro offerta liberamente sul mercato, ricevendo la mercede del proprio lavoro nei campi. Sarà l’utililitarismo anglosassone, tuttavia, a fondare l’ideologia liberale che si è imposta con la seconda rivoluzione economica dopo quella del Rinascimento, quella Industriale del XVIII e XIX secolo. Questa teorizza un sistema economico sostanzialmente “indifferente” ai valori, ridotti a “preferenze”, ed alla stessa democrazia politica. Il capitalismo così concepito funziona bene anche in sistemi autoritari ed oppressivi, come la Cina di oggi sembra mostrarci. La critica al liberalismo (anche se tutti i nostri politici ci tengono a definirsi liberali) ha sottolineato da tempo ed autorevolmente che un sistema socio-economico che “atomizza” i suoi attori e ne corrode i vincoli di solidarietà affidandosi alla risoluzione “contrattuale” delle questioni comuni è votato al fallimento. La democrazia liberale classica non sembra in grado di mantenere le proprie promesse: l’espansione incontenibile dei diritti ed il tramonto dei “doveri inderogabili di solidarietà” (art. 2 della nostra Costituzione) pare a molti la vera radice del disastro fiscale a cui si avvia l’Occidente, con l’Italia tra i primi nella triste corsa. Partendo da questa analisi, Zamagni (cfr. L’economia del bene comune, Città Nuova, 2007) propone una serie di interessanti “idee-forza” a cui aggrappare la rinascita di questo nostro Paese allo stremo. La prima è quella di un sistema imprenditoriale “plurale”, dove cresca lo spazio, a fianco di quelle “classiche” orientate al profitto, delle imprese “sociali”, che soddisfino bisogni di tipo collettivo, non necessariamente assistenziali, senza tuttavia essere dei “carrozzoni” che dipendono dal bilancio pubblico. Il campo del servizi sociali si presenta come uno dei più interessanti: si tratta di passare da un welfare “Hobbesiano” in cui la politica intermedia in maniera esclusiva le risorse, generando competizione, spesso aspra, tra i possibili beneficiari (ed inefficienti spartizioni lottizzatorie) ad uno “fraterno” nel quale liberi individui, famiglie e corpi sociali organizzano autonomamente le risposte ai propri bisogni (ad es. la salute, la protezione sociale, il tempo libero, la generazione e distribuzione di energia ed in generale i settori dove esistono forti “esternalità” rispetto ai contratti individuali). L’energia che si libera da questi processi di auto-organizzazione si riflette positivamente sul sistema politico, che può muoversi dalla delega sempre più scettica dei cittadini a classi politiche sempre più irresponsabili verso forme di “democrazia deliberativa”, articolata su livelli molteplici di aggregazione, capaci di motivare alla partecipazione e moralizzare la vita pubblica, proprio perché coinvolgono la gente a partire dai propri bisogni primari e riducono il potere discrezionale e potenzialmente corruttorio della politica. L’”economia civile” ri-assume quindi la fraternità come elemento indispensabile del sistema economico e costruisce quel “capitale sociale” senza il quale quello finanziario non può dare frutto, come abbiamo dolorosamente verificato nella lunga catena di fallimenti delle nostre politiche per il Sud. In questa prospettiva i valori condivisi non nascono da un’improponibile imposizione da parte di qualche autorità morale, ma dalla concreta ricerca collettiva di soluzioni ad esigenze vitali. La condizione essenziale tuttavia, è che il movimento verso l’economia solidale sia autentico, self sustainable e senza secondi fini. Troppe iniziative spacciate come campioni della sussidiarietà non sono altro che escrescenze del vecchio modello burocratico-statalista, come certe cooperative di servizi (e di organizzazione del consenso) che vivono sempre di denaro pubblico, o la gran parte delle utilities locali. Luca Romanelli www.lucaromanelli.it