Da qualche anno si va delineando un preciso interesse sul tema della paura, con ampia risonanza mediatica. Inchieste, dibattiti, convegni, libri, questionari hanno indagato la frequenza e le forme in cui si manifestano le angosce e le fobie del nostro tempo, siano esse individuali che collettive, private o pubbliche, nei bambini e negli adulti. Coloro che se ne occupano e preoccupano hanno le più svariate competenze: non solo sociologi, psicologi e neurofisiologi, ma anche storici, filosofi, antropologi e, sempre più spesso, politici ed economisti. Certamente la cosiddetta paura è un fenomeno sfaccettato e caleidoscopico, che per essere compreso deve essere affrontato da molteplici punti di osservazione. Occorre però tenere presente che le varie discipline utilizzano metodologie molto diverse (talora non ne usano alcune) e, di conseguenza, la comparazione e l’integrazione dei dati che se ne vogliono far derivare è difficile; così come costante è il rischio, non sempre ingenuo, di slittamenti logici, confusioni di livelli, strumentalizzazioni. Gli attacchi a Charlie Hebdo e Copenaghen, quelli al Bardo, o ancor di più quelli a Parigi nei luoghi del divertimento e di recente i fatti in Turchia con le immagini di quei corpi martoriati a terra stanno profondamente condizionando il nostro stile di vita, la tranquillità nei nostri spostamenti, il nostro modo di vivere e di percepire la realtà. Il senso di paura collettivo, sembra legato al timore di perdere il controllo, di non riconoscere più i contorni delle cose e di quello che credevamo fosse certo e scontato, come se improvvisamente ci accorgessimo di essere arrivati alla fine della corsa e davanti a noi si aprisse il vuoto. Non c’è quotidiano, trasmissione televisiva, radiofonica o sito web che, nella gerarchia delle notizie, non metta in primo piano queste cinque lettere. Molto spesso alcune delle paure collettive e allarmi sociali vengono prodotti anche dal modo in cui i cittadini vengono informati sugli accadimenti magari attraverso immagini dei notiziari televisivi che quanto più sono violente e crude tanto più assumono un incerto statuto di realtà. In tempi remoti, nel tentativo di dare un senso alle sventure che si abbattevano sulle popolazioni, s’immaginava che le eruzioni dei vulcani, i terremoti o i maremoti fossero la conseguenza delle malefatte degli uomini, che venivano così puniti dagli dei onnipotenti. Era una fantasia angosciosa, ma in fondo così rimaneva un piccolo margine di negoziazione con la divinità: espiando, offrendo sacrifici, si poteva sperare di tenere a bada la minaccia e di prevenirla. Ai tempi nostri invece dobbiamo convivere con l’idea ancora più scomoda che il disastro non abbia alcun senso soprannaturale e colpisca alla cieca. È così che il nostro ambiguo rapporto con la natura si coniuga con un’altra grande paura della nostra epoca: il timore del futuro, o meglio che non ci sia futuro, quel senso di paura che fa sentire molti di noi come fluttuanti ed impotenti, come alghe sulle onde di un mare in tempesta. Sul piano descrittivo la paura è una reazione emotiva che si presenta dinanzi a un pericolo reale, ma anche verso una qualche percezione di minaccia di cui può non essere immediatamente identificata la fonte. Immaginiamo di violare inavvertitamente la colonia di un formicaio sul prato durante una qualsiasi passeggiata. In un istante quella delicata comunità stravolge il suo apparente ordine, le gallerie violate, le fragili uova coperte nella loro sabbia, le formiche che agitano le antenne, si animano velocemente guidate solo dal loro istinto e da una comunicazione che passa attraverso precisi segnali chimici tra compagne, ormai pazze di un terrore muto. Le formiche vanno in panico di fronte a un evento violento che colpisce il nido, o parte del gruppo, magari intento ed indaffarato a raccogliere cibo. Nessuna di loro, in quel momento, ha la percezione di tutto il formicaio ed i suoi movimenti sono condizionati solo da quanto accade nelle immediate vicinanze. Basterà attendere pochi attimi, allontanarsi da quella piccola colonia e poi tornare sul posto per osservare che quel caos si è stranamente trasformato di nuovo in ordine tanto da far credere che qualcuno dall’alto abbia imposto una strategia a quel piccolo esercito, subito ricomposto in una situazione di assoluto equilibrio. In realtà questi insetti portano a compimento una strategia di sopravvivenza individuale affinché qualcuno della specie si salvi per poter poi rifondare il gruppo dimostrando una grandissima capacità di adattamento ai cambiamenti dell’ambiente. Ma è lo stesso per l’uomo e la sua specie? Questo particolare comportamento, nella sua complessità, forse potrebbe dare suggerimenti e spunti importanti nello studio delle reazioni collettive agli eventi catastrofici o altri caos sociali, fino ai timori legati al rischio del terrorismo internazionale i cui casi, negli ultimi anni stanno crescendo a dismisura in tutto il mondo. Ovviamente, gli esseri umani sono entità molto più complesse delle formiche, e dotate di abilità cognitive superiori. In condizioni di forte sollecitazione e stress esterni, tuttavia, è ragionevole ipotizzare che un essere umano utilizzi delle capacità molto elementari, ma ad alta reattività, rinunciando a un’elaborazione strategica che renderebbe più lenta la propria azione. L’agire collettivo delle folle, prendendo in esame situazioni di emergenza, potremmo dire che sia in grado di riprodurre quello stesso “isterismo di massa” scatenando gli istinti primitivi dell’uomo. Le reazioni delle folle sono ormai le stesse delle colonie di formiche stipate sottoterra. Il termine “paura” è ormai una costante nei titoli dei quotidiani, legato sia al resoconto di eventi catastrofici sia di atti terroristici. Il terrorismo, ad esempio innesca quel meccanismo complesso della paura collettiva, l’immobilizzazione, l’arresto, il timore dell’altro, della gente comune. Attraverso i mezzi di comunicazione di massa, può capitare che una paura esasperata generi un crescente allarme sociale. Ad esempio in questi ultimi periodi, l’ostilità nei confronti del mondo islamico, accusato di aver generato il terrorismo, sembra diventare una autentica ossessione del mondo occidentale, generando un profondo senso di insicurezza. Sembra si sia attivata una vera e propria “macchina della paura” subliminale, che punta ad assecondare le pulsioni repressive presenti nella società. Va sottolineato come l’intento del terrorismo venga rappresentato come in grado di destabilizzare le società colpite, di provocare un allarmismo in grado di sfociare in scelte politiche ed economiche dannose anche attraverso la diffusione di un senso di insicurezza perpetua e sfiducia nel prossimo, aggravando le tensioni sociali. La chiave per chiudere la porta di questa “industria della paura” e quindi consentire alla società di auto-proteggersi, è quella che avevamo già affrontato nell’articolo precedente quello della “resilienza civile”. Pratiche concrete di costruzione di resilienza civile riguardano le comunità, sia psicologicamente che socialmente, su di un piano analitico, strategico, operativo ed interpretativo. Esse comprendono innanzitutto l’istruzione alla comprensione e gestione delle cause e conseguenze del fenomeno non solo a livello nazionale, ma anche individuale e comunitario. Ciò è possibile per esempio attraverso la trasmissione di un modello positivo anche di tipo psicologico ed un sistema inquinante di trasmissione di quel senso di sicurezza che deve avvolgere la collettività e questo potrebbe nascere anche con l’organizzazione di corsi specifici e simulazioni rivolti a diversi soggetti su un determinato argomento, come ad esempio quello di pianificare un coinvolgimento anche di operatori della protezione civile, professionisti, ed esperti in diversi settori e, magari anche una sensibilizzazione all’interno delle scuole, in cui argomenti come quello interculturale, la questione religiosa e politica, il mondo del Medio Oriente possano essere affrontati da un punto di vista storico e filosofico. E’ chiaro che se non abbiamo sicurezze, serenità e certezze, non siamo in grado di trasmetterle né ai cittadini, né alle nuove generazioni. Esiste un termine “disaster resilience” che è divenuto sempre più comune nei quadri di intervento umanitario dei paesi anglosassoni, indicando i processi di costruzione della resilienza volti a ridurre gli effetti di eventi catastrofici come crisi socio-economiche, conflitti etnici, inondazioni, epidemie o terrorismo. Un esempio per tutti, in seguito all’attentato della maratona di Boston, lo stesso Obama è stato ad invocare la resilienza. Analogo tema è stato ripreso dal governo canadese, quando all’indomani di un sventato attacco interno ha ribadito l’importanza della resilienza. Resilienza come unico antidoto al terrorismo. Quelle formiche che ristabiliscono l’ordine, lo fanno attraverso strategie condivise, sistemi di informazione comunicazione e processi che tutte conoscono e condividono in un preciso e proficuo effetto domino che consente loro tornare alla normalità. Lo stesso potrebbe avvenire nell’agire sociale attraverso la resilienza civile. Una fonte di paura collettiva realistica è quella che deriva dai disastri naturali, malauguratamente incombenti, ora, come nei secoli passati. La paura è appunto un’emozione primaria, un sentimento che alberga nell’animo umano. Spalancare una finestra sull’orizzonte conoscitivo della stessa parola, impone di focalizzare l’oggetto e il terreno d’indagine su due importanti elementi: definire l’oggetto paura e i segni che consentono di interpretarlo e comprendere le dinamiche sociali entro le quali si produce o quelle che è in grado di diffondere. Ma la paura si può trasformare anche in panico sociale, in voglia di capri espiatori, in bisogno di uomini forti che ci proteggano da ogni rischio; può trasformarsi in intolleranza, in irrazionalità, in una strana forma di energia che ha quasi vita autonoma e che domina e tiranneggia le coscienze. I fantasmi moderni, o meglio la loro rappresentazione, somigliano molto a quelli del passato, sembra che l’unica vera differenza sia rintracciabile nel mezzo attraverso il quale la paura viene distillata. Vale la pena ricordare comunque che la paura rappresenta una costante nell’evoluzione umana. E’ un’emozione fondamentale, universale e innata, provata allo stesso modo da ogni individuo, appartenente a qualsiasi cultura o etnia. Governata dall’istinto, ha come obiettivo la sopravvivenza dell’uomo in una situazione di pericolo, presunta o reale, e quindi si scatena ogni volta che l’organismo si sente per un qualsiasi motivo minacciato. La forte preoccupazione per qualcosa, a prescindere dal “cosa”, può essere così intensa da paralizzare, rendere le persone fragili ed inermi, inibendone il pensiero e la creatività. E’ anche un sentimento che fa chiudere, non consente di esplorare nuove strade e soprattutto, fa sentire circondati da un mondo paranoico ed ostile che spinge all’isolamento e alla perdita della capacità di pensiero. Le paure che hanno perennemente scandito l’evolversi dei mutamenti. In breve, la resilienza intesa come capacità di adattamento individuale e collettiva come processo di trasformazione delle crisi in opportunità. Non a caso i Paesi più resilienti hanno saputo reagire meglio ad esempio alla crisi finanziaria globale. In conclusione, le paure dei nostri giorni, che si esprimono nelle svariate forme individuali e collettive come angoscia dei ladri o dei pedofili, del terrorismo o della guerra totale, hanno il loro comun denominatore nella paura della violenza propria e altrui, che ha la sua radice oscura nell’angoscia trascendente e impersonale dell’aggressività umana. Si approda così inesorabilmente alla riflessione esistenziale sulla distruttività; un dilemma intorno al quale, fin dall’epoca di Freud, gli psicoanalisti hanno messo in campo i loro strumenti concettuali, tentando di trasformare un’angoscia privata in un interrogativo scientifico. Continuiamo a chiederci se sia possibile distinguere un’aggressività sana al servizio della vita, in contrapposizione a una aggressività malefica che alla vita si oppone; se esista in noi un’innata ‘pulsione di morte’, se la distruttività ne sia l’espressione fatale oppure sia la conseguenza – limitabile e contingente – delle frustrazioni della vita. Che sia un crimine o un destino, possiamo comunque concordare sul dato concreto che l’aggressività più pericolosa – per gli individui e per i popoli – è quella inconscia, con la quale non si può venire a patti.
Serenella Ciarrocchi