Gli accordi siglati in questi giorni dal nostro Governo con Svizzera, Monaco e Liechtenstein, combinati con la nuova legge sulla voluntary disclosure ed il rientro dei capitali non dichiarati detenuti all’estero costituiscono un duro colpo per gli evasori fiscali. Le recenti norme che consentono all’Agenzia delle Entrate di scovare movimenti anomali nei conti dei contribuenti, insieme all’obbligo di digitalizzare i pagamenti ad imprese e professionisti restringono ulteriormente e di molto i loro spazi di manovra.
Contenere l’evasione fiscale è una necessità assoluta per le economie avanzate mature (specie se in declino) come l’Italia: l’invecchiamento della popolazione, il calo della produttività ed il deficit accumulato mettono a rischio lo stato sociale ed impediscono, come è avvenuto in passato, di trasferirne i costi alle generazioni future. Oggi l’evasione non solo è dirompente per la coesione sociale ma condiziona fortemente anche le possibilità di ripresa della crescita. Essa avvantaggia attività scarsamente produttive e male organizzate, contribuendo a ridurre la produttività dell’economia. Nelle professioni come nell’industria l’evasione è infatti un forte incentivo alla frammentazione ed alla precarietà delle forme di impresa, mentre la globalizzazione impone loro una ristrutturazione profonda nel senso dell’efficienza e del recupero di valore aggiunto, quasi sempre impossibile da realizzare senza organizzazioni più grandi e gestite con procedure di controllo trasparenti.
C’è chi sostiene che ci sia un’evasione “di sopravvivenza” da accettare come necessaria. Penso alle molte aree di lavoro sommerso nel Sud ma non solo. In realtà i costi economici e sociali di questi assetti precari sono molto maggiori di quelli di sagge e coraggiose politiche di emersione, come l’allargamento della no tax area per i lavoratori, l’agevolazione alla regolarizzazione previdenziale e la forfetizzazione del carico fiscale per i datori di lavoro.
Esistono tuttavia due aspetti decisivi del problema fiscale gestibili efficacemente solo attraverso la cooperazione tra stati a livello globale. Il primo è il contrasto alle pratiche legali di elusione delle grandi multinazionali, basate sui prezzi di trasferimento e su accordi fiscali vantaggiosi con alcuni paesi per sottrarre imponibile a quelli dove di fatto viene prodotto. Si pensi a quello che ha combinato Junker nel suo Lussemburgo. L’Economist calcola che il carico fiscale medio delle multinazionali sia del 5%, rispetto al 35 delle piccole e medie imprese. Anche questa è concorrenza sleale che impoverisce tutti noi. Occorre quindi imporre regole contabili condivise che assicurino maggiore equità. L’OCSE è al lavoro da anni e ha già prodotto delle linee guida.
L’altro tema è quello dei redditi da attività finanziarie, sempre più importanti rispetto a quelli da attività operative. Attualmente sono tassati molto meno che il lavoro o il capitale operativo, per timore che “scappino” su altre piazze. Per questo è vitale giungere ad accordi tra i paesi più ricchi che ne armonizzino ed alzino la tassazione, malgrado gli enormi interessi di pochi che remano contro.
Luca Romanelli