Osvaldo Licini è ormai riconosciuto come un personaggio di primo piano della pittura moderna, e il destino volle che il maggior riconoscimento della sua vita, il premo internazionale alla XXIX Biennale di Venezia, gli venisse tributato poco prima della scomparsa.
Nacque a Monte Vidon Corrado il 22 marzo 1894 da famiglia di artisti (padre disegnatore, madre stilista di moda, sorella ballerina) e qui visse con i nonni, lontano dai genitori. Portato per il disegno, fu iscritto all’Accademia di belle arti di Bologna, dove si diplomò nel 1914 insieme a Giorgio Morandi, con il quale espose per l’organizzazione futurista di Filippo Tommaso Marinetti.
Spirito ribelle, sempre contro le convenzioni (amò definirsi più avanti «errante, erotico, eretico») fu volontario nella prima guerra mondiale. Gravemente ferito alla gamba destra, che rimase menomata per tutta la vita, per lungo tempo fu convalescente nell’ospedale militare di Firenze, dove conobbe un’infermiera con la quale ebbe una relazione dalla quale nacque un figlio.
Dopo la guerra divennero sempre più frequenti i suoi soggiorni a Parigi, centro di ogni espressione artistica, e i contatti e le frequentazioni con i giovani esponenti delle nuove correnti espressive, fra questi Modigliani e Picasso. Ottenuto intanto l’insegnamento a Fermo, alternò i suoi soggiorni fra Monte Vidon Corrado, dove lavorava, e le maggiori città dove iniziò la partecipazione agli eventi espositivi (si racconta che una sua natura morta esposta in una collettiva di Milano fu acquistata da Mussolini).
Nel 1926 sposò una giovane pittrice svedese, Nanny Hellstrom, che gli restò a fianco tutta la vita, e si trasferì definitivamente nel suo paese natale dal quale si sposterà soltanto per motivi di lavoro. Il 1935 fu l’anno della svolta: «ho fatto tutto quello che ho potuto per fare una buona pittura […] poi ho cominciato a dubitare. Dubitare non è una debolezza, ma è un lavoro di forza, come forgiare. La pittura è l’arte dei colori liberamente concepiti, un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia».
Fra entusiasmi, ripensamenti, abbandoni, continuò a dipingere e a creare. Il suo astrattismo si perfezionò ancora dopo la seconda guerra mondiale, da lui ferocemente aborrita, tanto da fargli scrivere: «Sul cucuzzolo di Monte Vidon Corrado sta accumulando materiali in vista dell’ultima avventura, la vera, la decisiva». È l’avventura dei suoi «angeli volanti», delle immortali «amalassunte», che lo consacreranno nella storia della pittura. Premiato
con generale consenso alla Biennale di Venezia (ricevette il premio dall’allora presidente della Repubblica Gronchi), Lionello Venturi lo definì «un anziano che è più giovane dei giovani».
Morì nel suo piccolo paese, del quale per un decennio fu sindaco, l’11 ottobre 1958. A 60 anni dalla morte, il Guggenheim di Venezia gli ha dedicato nel 2018 una grande retrospettiva. Giovanni Martinelli