Si avvicina la fine dell’estate e speriamo anche quella dei proclami sul tramonto dell’euro.
Le società di rating ed i mercati stanno necessariamente col fiato sospeso attendendo il Documento di Economia e Finanza prima di esprimere un giudizio sulla situazione e sulle prospettive del Debito Pubblico italiano.
Annunci e sparate in ordine sparso da parte dei vari ministri del Governo contro le regole fiscali europee, ma liberamente sottoscritte dall’Italia, hanno finora complicato enormemente la gestione del debito pubblico.
Un BOT a 6 mesi, dopo gli esiti dell’ultima asta, paga più o meno lo stesso tasso di un Bonos, Il BTP spagnolo, a 5 anni.
Il rating ufficiale dei titoli italiani e spagnoli è lo stesso, ma i tassi sono molto diversi. Se da un lato le agenzie di rating hanno sospeso il giudizio, i mercati esprimono, per i titoli italiani, rendimenti da titoli spazzatura.
E’ quindi di cruciale importanza capire cosa verrà scritto nella legge di bilancio dove si dovrà giocoforza fare i conti – adesso è proprio il caso di dirlo – con le regole esistenti.
Molti esponenti della coalizione di Governo si sono espressi contro il tetto del deficit al 3 per cento. Ha cominciato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti. Gli ha fatto eco il presidente della commissione Finanze del Senato Alberto Bagnai. Infine si è aggiunto il capo politico dell’altra costola della coalizione, Luigi Di Maio. Tutti contro una soglia definita “sbagliata” (Di Maio) o “priva di valore scientifico” (Bagnai).
In effetti in nessun libro di economia si trova spiegato il perché di quel tetto: perché 3 e non 2 o 4. Nessuno lo sa.
L’unica soglia sensata da imporre sul deficit potrebbe essere lo zero. Tale regola corrisponderebbe ad uno stato che fa fronte ai suoi programmi di spesa con risorse proprie mantenendo il deficit pubblico sempre uguale a zero. Uno stato che non s’indebita ed è libero da possibili influenze straniere nella conduzione della propria politica. E uno stato che non s’indebita tratta allo stesso modo le generazioni di oggi e quelle future che altrimenti sarebbero chiamate a rimborsare il debito pubblico dopo che a beneficiarne sono stati i genitori o i nonni.
Pur con un suo fascino etico, una regola del deficit sempre uguale a zero è però soggetta a molte critiche legittime. La prima critica è che a seconda di come va l’economia il deficit sale e scende in automatico. Quando il Pil va male, scendono le entrate fiscali mentre la spesa corrente, o resta inalterata, o più probabilmente, sale per assistere i disoccupati e le famiglie povere, fatalmente in aumento negli anni di vacche magre.
Imporre ai governi di tenere in equilibrio i conti anche durante una recessione sarebbe sciocco e anche controproducente: per eliminare il deficit “automatico” bisognerebbe ridurre la spesa pubblica (con conseguenze sociali disastrose) o aumentare le aliquote di imposta, il che addirittura peggiorerebbe la recessione.
Dopo la recessione di solito torna la ripresa durante la quale si applica – rovesciato di segno – lo stesso ragionamento fatto per le recessioni. Quando l’economia va bene, il Pil cresce e così fanno le entrate fiscali. In parallelo, scendono le spese sociali perché diminuisce il numero dei disoccupati e dei poveri. Durante una ripresa il deficit diventa automaticamente un surplus. In tempi di vacche grasse i governi dovrebbero però resistere saggiamente alla tentazione di intraprendere nuovi programmi di spesa non sostenibili quando arriveranno i periodi “di vacche magre”.
L’accumulo di debiti degli ultimi decenni la dice però lunga sulla misura della saggezza.
Ciò detto sembra di assistere in questi giorni ad un dibattito surreale. La condivisibile critica alla fissità del tetto del 3% non è motivata dalla necessità di adeguare i programmi di spesa alla situazione in cui versa l’economia italiana. Lo sforamento della regola del 3% dovrebbe colludere con le promesse fatte in campagna elettorale.
La sostituzione della regola del 3% fisso con una regola “flessibile” è incorporata nel cosiddetto fiscal compact che è erroneamente criticato come incarnazione di una cieca ossessione rigorista. Se la regola fissa del 3 per cento è “sciocca”, il Fiscal compact è, invece, flessibile e quindi più “intelligente”.
Solo che il fiscal compact consente, magari, di fare un ponte sforando il deficit. Il reddito di cittadinanza o la flat tax no!
Al di là delle considerazioni dettate dall’alternarsi di recessioni e riprese nell’economia, ci può essere anche un’altra ragione per finanziare un programma di spesa pubblica in deficit. È il caso di programmi straordinari che portino benefici anche alle generazioni future.
Se devo ricostruire un aeroporto che servirà per il prossimo secolo, non ha senso che il finanziamento di tale spesa ricada solo sulla generazione che usa oggi la nuova infrastruttura. E proprio in base alle regole del fiscal compact l’Europa ha già autorizzato e co-finanziato spese in deficit per le emergenze terremoto nelle finanziarie degli ultimi anni.
Ben diversa è l’idea di finanziare in deficit misure come il reddito di cittadinanza o la flat tax o la riforma delle pensioni. Questi, sono provvedimenti che mettono più redditi nelle tasche delle persone delle generazioni attuali lasciando a quelle future l’ingrato compito di doverle pagare.
Certo che le ragioni elettorali sono molto più semplici e meno indirette dei ragionamenti che precedono. Come dire, con gli elettori posso imbrogliare e sparare panzane senza pagare dazio, ma anzi, guadagnare consensi.
Ma, come ho già ricordato, e agenzie di rating, come le stelle, per ora stanno a guardare. E sarà difficile imbrogliare anche quelle.
Marchetto Morrone Mozzi