Visto il chiasso sollevato dal salvataggio di alcune banche, non posso esimermi dal fare alcune considerazioni a riguardo.
E lo faccio malvolentieri poiché, nell’assumere l’impegno di condurre questa rivista, mi ero ripromesso che non sarei mai intervenuto su questioni riguardanti il mondo bancario.
Ma veniamo ai fatti. Dopo una lunga amministrazione controllata, per quattro banche italiane (Banca Marche, CariChieti, Cassa di risparmio di Ferrara, Popolare Etruria), durante la quale sono puntualmente naufragati tutti i tentativi volti a trovare soluzioni efficaci, il Governo è intervenuto d’urgenza al fine di eludere l’applicazione di una normativa, quella sulle risoluzioni delle crisi bancarie, emanata a livello comunitario, e poi regolarmente recepita dall’ordinamento italiano.
E già qui c’è la prima anomalia tutta italiana. E’ mai possibile che il legislatore prima fa una legge e subito dopo il Governo, d’intesa con Banca d’Italia, ne fa un’altra per evitare che la prima venga applicata? Logica vorrebbe che se il Governo riteneva che quella legge era inidonea per gestire le crisi bancarie, disponendo di una maggioranza in Parlamento, poteva benissimo emendarla o non farla approvare del tutto assumendosi la responsabilità della decisione anche in sede comunitaria.
E invece nossignori. Fatta la legge, trovato l’inganno.
Il provvedimento governativo è stato anche accompagnato da una pronta nota pubblicata da Banca d’Italia, che ha il ruolo di autorità di risoluzione, che ha dato alcuni dettagli dell’operazione.
Ma non quelli più interessanti. Dettaglia sulle pagliuzze tecniche ma nasconde le travi.
Quali sono, dunque, i provvedimenti assunti? Al fine di assorbire parte delle perdite delle 4 Banche dissestate, la prima legnata di circa 700 milioni di euro se la prendono gli azionisti ed i sottoscrittori di obbligazioni subordinate che vedono azzerato il valore dei loro investimenti.
La parte restante delle perdite, sarà coperta con prelievi imposti alle banche “sane”.
Le quattro banche in dissesto saranno poi divise in due parti: una parte, detta banca “buona”, e un’altra, la banca “cattiva” che raccoglie le sofferenze, cioè i crediti scarsamente esigibili, dei quattro istituti.
Il capitale operativo delle banche buone verrà portato al 9 per cento grazie ad una mega iniezione da parte del Fondo italiano di risoluzione, che fornirà anche una garanzia alla banca “cattiva”.
Tradotto in soldoni, il fondo di risoluzione sosterrà un onere complessivo di circa 3,6 miliardi di euro.
Sorge spontanea una domanda: chi tira fuori i soldi visto che, alla data, il fondo non ha nemmeno una lira in tasca?
E’ qui dove la storia diventa interessante. Vista l’urgenza dell’operazione data come già detto, dalla necessità di eludere una legge dello Stato, il fondo di risoluzione viene finanziato da tre grandi banche italiane (Unicredit, Intesa e Ubi) attraverso due linee di credito distinte: una a breve termine di 2 miliardi che andrebbe restituita entro fine anno e un’altra a 18 mesi di 1,6 miliardi.
La prima, quella di 2 miliardi, dovrà essere restituita ricorrendo ad una sorta di prelievo forzoso, a valere sui contributi dei successivi tre anni, nei confronti delle banche sane con un drenaggio mostruoso di risorse che fatalmente ne ridurrà le capacità di sostegno all’economia.
La seconda, quella di 1,6 miliardi, verrà estinta immaginando che le quattro banche “buone” una volta poste sul mercato, risulteranno interessanti per qualche compratore disposto a sborsare almeno 1,6 miliardi per comprarsele permettendo, in tal modo, al fondo di risoluzione di estinguere il prestito verso le tre grandi banche finanziatrici.
Ma se nessuno dovesse farsi avanti per comprare le 4 banche “buone” che fine farà il prestito? E il dubbio è certamente fondato visto che nei lunghi anni di commissariamento, nessuno s’è mai fatto avanti nonostante la moral suasion esercitata dalla Banca d’Italia che non vedeva l’ora di vedere maritate le quattro poverette.
E nonostante gli sforzi della potentissima agenzia matrimoniale, nessuno s’è mai fatto coraggio e le quattro banche sono rimaste com’erano. Povere e zitelle.
Ma se il dubbio sui futuri assetti proprietari è legittimo, di sicuro sappiamo solo che quegli 1,6 miliardi alla bisogna saranno nuovamente fatti pagare alle banche che con gran fatica sono rimaste a galla nonostante i marosi della crisi.
E quando le banche avevano, incredule, appena finito di leggere le carte del provvedimento governativo, un’altra pentola s’è all’improvviso scoperchiata. E’ tornato cioè a galla un altro recentissimo salvataggio effettuato, questa volta dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, in favore della Banca Tercas.
Stavolta si è messa di traverso la Commissione europea che considera quell’intervento un aiuto di Stato. E anche qui, a frittata fatta, le potenti menti del gotha bancario nazionale hanno escogitato una soluzione ancora più ingarbugliata di quella, più famosa, già narrata, e che non vengo a raccontare perché tanto nemmeno il lettore più affezionato mi crederebbe.
A pasticcio si risponde con un pasticcio ancora più grande. Tanto in quel mondo, fatto di parrucconi poco capaci e talvolta assai rapaci, non succede mai nulla.
La storia è sicuramente nelle fasi iniziali e sarà interessante vedere quanto – e cos’altro – accadrà nei prossimi convulsi giorni.
Possiamo però già trarre alcune (ovvie) conclusioni.
Primo, il piano di usare anticipatamente tre anni o più di contributi al fondo di risoluzione solo per evitare un bail-in in quelle quattro banche è quantomeno rischioso, perché riduce considerevolmente lo spazio di manovra nel caso in cui qualche altro istituto debba avere problemi nei prossimi anni.
Secondo, se il piano non dovesse funzionare come previsto e le linee di credito concesse dai tre Istituti maggiori non potessero essere interamente ripagate da contributi delle altre banche, cosa succederebbe? Curiosamente una meritoria nota di Banca Intesa dice esplicitamente che in quel caso, subentrerebbe la Cassa depositi e prestiti.
Non vorrei essere menagramo, ma vedo in lontananza lo spettro dell’ennesima bocciatura da parte della Commissione UE con buona pace delle frettolose affermazioni della Banca d’Italia che, con assoluta certezza dichiara che i contribuenti non sosterranno alcun costo nell’operazione.
Già, ma si è probabilmente dimenticata che la Cassa Depositi e Prestiti è partecipata all’80% dallo Stato Italiano.
Sarà stata solo una svista? Io non credo.
Marchetto Morrone Mozzi