I sussulti settembrini delle borse e delle valute hanno messo in difficoltà anche i più esperti investitori. Il futuro è sempre più incerto e l’imprevedibilità è diventata la regola.
Troppe sono le variabili in gioco: la Cina, i Paesi emergenti e il possibile rialzo dei tassi Fed di cui non si parla più ma che con l’anno nuovo tornerà prepotentemente alla ribalta.
La sola cosa che si riesce a capire è che i mercati finanziari sono alquanto convulsi.
Tutti quanti: azionari, obbligazionari e valutari che un giorno salgono e l’altro scendono. L’unica, parziale eccezione è data dalle materie prime che percorrono un sentiero che porta a un inesorabile declino fortemente correlato con le negative prospettive congiunturali.
E non è un bel segnale per le borse.
Capire se queste siano destinate a salire o a scendere nelle prossime settimane, compete più alla sfera dell’es che non dell’io. Della trascendenza che non della ragione.
Socraticamente ammetto che “scio me nihil scire” – so che non so niente - ed evito accuratamente di pormi il problema di fare previsioni di breve periodo poiché, per prenderci, bisogna solo sperare di azzeccarci.
Le variabili in gioco sono evidentemente troppe e non è nemmeno detto che, allo stato attuale, siano state individuate tutte.
C’è l’incognita della Fed, che non sappiamo quando, ma sembra destinata prima o poi ad alzare i tassi d’interesse: un evento che non si verifica da quasi 10 anni e che buona parte degli operatori delle sale operative conoscono solo per averne sentito parlare dai loro colleghi già andati in pensione.
C’è la Cina che preoccupa, per la possibile frenata della sua economia, ma anche per il rischio che arriva dallo stato delle sue finanze, dall’erosione delle sue riserve valutarie e dalla ventilata confusione contabile che ci riporta alla mente i guasti prodotti dalla pulce greca.
Ci sono poi i Paesi emergenti, dove le aziende si trovano a fronteggiare debiti contratti nella valuta americana, in forte rialzo da oltre un anno.
Se i mercati sono in grado di reggere a tanta incertezza è perché resta forte la convinzione che le banche centrali possano gestire la situazione: e siccome, con i tassi a zero, non c’è più possibilità di manovra con gli strumenti della politica monetaria convenzionale, ci si è affidati alle armi non convenzionali, ai cosiddetti quantitative easing, che altro non sono se non la stampa furibonda di banconote, seppure in chiave moderna.
La mia idea è che la fiducia riposta dai mercati in tale terapia sia solo una sorta di scaramanzia, un totem a cui rivolgersi, poiché a lungo andare l’abuso dei Qe finirà per spuntare anche questo arnese, che, peraltro, deve ancora mostrare i mirabolanti risultati che avrebbe dovuto produrre.
Ma ai mercati l’overdose monetaria piace. E lo dimostra l’apprensione con cui viene seguito in tutto il pianeta il calendario delle riunioni del Fomc, il direttorio dei Governatori centrali americani, ancora riluttanti ad alzare i tassi Usa anche perché la decisione potrebbe rendere più̀ acuta la crisi cinese, complicherebbe le cose tra i Paesi emergenti, farebbe salire i rendimenti dei Treasury Usa e bastonerebbe tutte le borse.
Insomma sarebbe una brutta sorpresa. Poiché s’è visto in tante occasioni quanto la Fed sia sensibile alle sollecitazioni della politica e degli investitori e come sia invece aliena dal prendere alla sprovvista i mercati, ci sono buoni motivi per credere che per tutto il 2015 non farà sorprese.
Nell’incertezza attuale quindi, gli operatori finanziari sembra che stiano ancora facendo affidamento sui poteri taumaturgici delle banche centrali e tifano perché vengano perpetuati i quantitative easing.
Marchetto Morrone Mozzi