In Grecia, come noto, le elezioni politiche del 25 gennaio 2015 hanno suggellato la larga vittoria della sinistra socialista condotta dal quarantenne Alexis Tsipras sulla base di un programma particolarmente orientato a dare una soluzione alla grave crisi in cui si dibatte la Grecia partendo dalla necessità di alleviare le sofferenze che quel popolo sta subendo proprio a causa dei contraccolpi della crisi. Quali sono gli elementi essenziali della crisi greca? In primo luogo vi è il debito pubblico che è pari a quasi due volte il PIL e deve, almeno in parte, essere rimborsato entro la fine di febbraio ma con le casse statali sostanzialmente vuote. Poi vi è il continuo calo del PIL sceso dal 2008 al 2013 di quasi il 30 percento causando il deterioramento di tutti gli indicatori di riferimento della politica economica oltre ad un reale e progressivo impoverimento della popolazione. La disoccupazione giovanile supera il 60 percento mentre quella complessiva è stimata al 26 percento contro, ad esempio il 12,7 percento dell’Italia che, come sappiamo, certo non brilla. Dopo i programmi di contenimento della spesa pubblica imposti alla Grecia dalla c.d. troika i conti pubblici hanno segnato qualche timido miglioramento, inadeguato però a recuperare la voragine degli anni precedenti. Negli anni che seguirono il suo ingresso nell’Euro, la Grecia, aveva per anni ed anni, questo occorre ricordarlo, barato sui propri conti, taroccando i dati, per fare apparire la propria situazione migliore di quella che in realtà era. La corruzione della macchina pubblica greca aveva raggiunto livelli senza pari nell’UE così come l’evasione fiscale, generalmente abbinata alla corruzione come sappiamo bene noi in Italia, era giunta a livelli insostenibili. Tutto ciò era poi associato ad un’industria sempre più marginale nella formazione del PIL. Scoperchiate le pentole e scoperta la voragine finanziaria, le istituzioni finanziarie europee hanno favorito imponenti programmi di aiuto finanziario con il Fmi e la stessa UE con il Fondo salva-stati, direttamente impegnati a fornire allo Stato greco ed alle banche di quel Paese la liquidità occorrente per fronteggiare le spese correnti. In cambio hanno però chiesto un’inversione di rotta che consentisse al Paese di interrompere i meccanismi di spesa che avevano, in poco anni, dissennatamente generato il mega-buco nei conti. Questo, in pillole, l’antefatto. Le cronache ci raccontano che i primi provvedimenti del governo greco, coerenti con le promesse elettorali, sono stati orientati all’espansione della spesa pubblica: assunzioni su larga scala di impiegati pubblici, aumento dei salari minimi, blocco del programma di privatizzazioni precedentemente concordato sono stati i primi atti del nuovo governo cui è seguito un tour presso le capitali d’Europa per chiedere il mantenimento dei programmi di sostegno alla Grecia. Su tutti, la Germania non ci sta poiché il ragionamento delle autorità greche sembra del tutto insensibile alle ragioni della corretta e sostenibile tenuta dei conti pubblici. Immagino inoltre che la principale preoccupazione delle autorità europee sta nei possibili effetti di contagio che tale perversa logica potrebbe avere, laddove venisse accolta o, addirittura, additata come esempio di virtuosismi contabili e amministrativi capaci di risolvere la crisi economica dell’eurozona. Nella tenzone che riempie le cronache di questi giorni divise tra rigoristi e progressisti, chi avrà ragione? Per darci una risposta bisogna ricordare che qualcosa di molto simile è già accaduto in passato proprio nel cuore dell’Europa. Dopo le elezioni del maggio del 1981, il Presidente francese Mitterand, mantenendo fede alle proprie promesse elettorali, varò il suo primo programma economico. Cominciò in quei giorni l'anno più folle della storia economica di Francia. Fu il momento delle nazionalizzazioni. Un esercizio irrazionale legato solo alla necessità, per le sinistre, di lanciare un segnale di rottura alla società capitalista, come Mitterrand aveva solennemente promesso. La follia di quel periodo non furono soltanto le nazionalizzazioni. E' una politica di rilancio della domanda interna che mise l’inflazione fuori controllo. E' una politica sociale, teoricamente giusta, macchiata però di velleitarismo, la famosa "settimana di 39 ore pagate 40" e l'altrettanto famoso diritto di andare in pensione a sessant' anni. Morale: la disoccupazione s'aggravò, il franco s'indebolì perdendo verticalmente contro le principale valute, il deficit della bilancia dei pagamenti salì alle stelle. Agli occhi del mondo, la Francia di Mitterrand divenne un Paese poco credibile fin quando, piano piano, al lassismo subentrò l'austerità. Scattarono le misure per difendere il franco, venne decretato il blocco dei prezzi e dei salari, si modificarono le norme pensionistiche e ripartirono le privatizzazioni. Un’indietro tutta in piena regola che però permise alla Francia di tornare sui binari dell'ortodossia economica, mettendosi così al passo della Germania. Finì così il bel sogno mitterandiano e i francesi scoprirono di essere più poveri di prima e, per giunta, dovettero accettare una pesante cura economica per rimediare ai guai di quegli anni dissennati. Tornando, dunque ai nostri giorni, v’é solo sperare che i nuovi governanti greci, che certamente conoscono la storia millenaria del loro Paese, conoscano anche la storia economica recente dell’Europa. Per evitare errori già fatti. Prima che sia troppo tardi. Marchetto Morrone Mozzi