Bisogna preoccuparsi se aboliscono le province? Se guardiamo con freddezza alle funzioni che oggi svolgono, direi di no. Gestiscono solo il 5% della spesa degli enti locali, troppo poco per giustificare un apparato amministrativo costoso. Nell’era di internet le principali competenze sarebbero facilmente ricollocabili a Regioni (specie piccole come la nostra) e Comuni.
Tuttavia, l’articolazione delle funzioni amministrative statali (prefetture e ordine pubblico, enti previdenziali, camere di commercio, giustizia, istruzione), regionali (sanità, urbanistica e trasporti) e delle rappresentanze politiche, sindacali e professionali è ancora saldamente ancorata alla dimensione provinciale. Per cui con le province verrebbe a mancare non tanto un apparato amministrativo quanto un referente politico delle comunità locali a fronte di poteri rilevanti organizzati così.
Vale la pena allora di chiedersi se l’ambito provinciale, dopo 200 anni, risponda ancora alle esigenze di gestione e sviluppo di un territorio. Si parla ora di “area vasta” ma è un concetto ancora abbastanza fumoso. Siamo, nella riflessione pubblica, ancora a livelli “seminali” di discussione, alla ricerca di nuovi criteri organizzativi. Possiamo provare a enunciarne alcuni che appaiono più significativi:
urbanistico-territoriale: le attuali province marchigiane sono strutturate su assi mare-monti. Ma gli ultimi decenni hanno visto lo sviluppo impetuoso di una “città unica adriatica”, costituita dalla catena dei centri costieri, sempre più integrati e connessi e con problematiche sempre più distinte da quelle delle fasce collinari e montane. Piccoli rarefatti comuni contro congestionati centri medio-grandi; artigianato, agricoltura e turismo rispetto a industria e servizi; comunità coese intorno alle tradizioni versus nuclei urbani sempre più permeabili ed aperti;
produttivo: i distretti produttivi marchigiani hanno spesso “scavalcato” le province. Inoltre, la globalizzazione ha allentato i vincoli di vicinanza geografica tra le imprese, proponendo nuove ricombinazioni di filiere produttive, con proiezioni anche globali;
culturale: nell’economia globale della conoscenza non hanno più senso gli “orti chiusi”. Abbiano quattro piccole università che rischiano l’irrilevanza per mancanza di focalizzazione delle risorse su obiettivi specifici critici per lo sviluppo locale. Lo stesso vale per le scuole superiori, specie per quanto riguarda i lori rapporti con il mondo produttivo;
socio-culturale: se pensiamo alle emergenze attuali, quali l’immigrazione, la criminalità organizzata, la disoccupazione di massa, un tempo quasi assenti in Regione, non è difficile notare come gli attuali assetti provinciali non solo non funzionano, spesso per mancanza di risorse e cultura dell’innovazione, ma rischiano di ostacolarsi tra loro. Penso in particolare al drammatico fallimento del sistema del collocamento e della formazione professionale.
Se si vuole delineare una nuova organizzazione del territorio, ai possibili criteri di riorganizzazione occorre affiancare una visione di lungo periodo delle sue linee di sviluppo. Non è facile in poche righe ma per le Marche proverei a riassumerle così:
rilancio dei settori industriali trainanti (calzaturiero, meccatronica, moda-arredamento,..) attraverso il consolidamento di aziende leader in grado di competere globalmente, oltre che orientare e fecondare un humus di PMI che sia sorgente di flessibilità produttiva e ricambio imprenditoriale;
forte recupero di competitività di sistema basato sugli asset specifici marchigiani: innovazione (materiali, piattaforme informatiche, cultura umanistica), imprenditorialità, coesione sociale e accoglienza;
sostenibilità, cioè tutela e valorizzazione di un equilibrio unico tra cultura e natura, storia e modernità che possono renderci uno dei “giardini” ambiti del mondo.
Se queste sono le premesse occorre immaginare e realizzare una riforma profonda dell’amministrazione del territorio che abbandoni progressivamente gli steccati tra territori ed ambiti di competenza per giungere ad un assetto reticolare-neuronale delle istituzioni, in grado di adattarsi rapidamente ad un contesto sempre più fluido. Reti di università per progetti di ricerca, di scuole superiori per i rapporti scuola-lavoro e l’innovazione didattica, di piccoli comuni per ridurre i costi aggregando i servizi, di città costiere per la mobilità e la gestione delle risorse ittiche, di polizie per stroncare i racket, di camere di commercio e associazioni professionali per modernizzare le PMI, di ospedali per specializzarsi nelle cure, di servizi sociali per la prevenzione e la lotta alla marginalità. Sono alcuni di mille esempi.
Occorre in questa direzione un enorme sforzo politico, giuridico e culturale per convertire mentalità burocratiche in aperte e responsabili, sacche protette di spreco e manomorta in progettualità vincente, localismi conservatori nella consapevolezza che il nostro patrimonio è il risultato di secoli di contaminazioni. I redattori di una bella rivista degli anni 80, Città-Regione, avevano già intuito il percorso.
Luca Romanelli, 24 Novembre 2013