Si sta già in attesa quando le porte sono ancora chiuse. C'è un giovane appoggiato ad un lampione, è riuscito ad arrivare in qualche modo da un paese del fermano, troppo presto e allora aspetta. Ci sono macchine ferme che in realtà sono case e nel portabagagli c'è l'armadio e le poche cose che si possiedono. E' la varia umanità che trova alla mensa del Ponte quanto di più simile ad una famiglia ci possa essere, dentro povere vite che si sono inceppate, per sfortuna o per malattia, per infelicità o per disgrazia. Sono una cinquantina, giovani e meno giovani, donne, uomini, cercano qui di placare una fame più profonda di quello dello stomaco, la fame di amicizia, di calore umano, di affetto. Li accoglie Carlo, ospite storico, è qui da 27 anni, è un veterano. Oggi finalmente ha una piccola pensione, ha risolto in parte la sua vita, resta la profonda solitudine che gli fa aspettare ogni giorno l'ora in cui il Ponte apre le sue porte: “Io ero alcolizzato, qui mi davano il latte che con il vino mi dava acidità e alla fine, a furia di bere latte, ho smesso di bere alcolici. E mi sono salvato. Mi hanno salvato”. Giusi insiste, si avvicina per dire al suo sindaco, il sangiorgese Nicola Loira, che lo ringrazia per l'accordo stretto col Ponte, per i pasti che coprirà, per l'attenzione che ha avuto per lei: “Sto in una casa che mi costa troppo, mio figlio dorme sul camion con cui lavora. Il sindaco mi ha detto che forse potrà farmi avere un monolocale e potrò pagarlo e mio figlio prenderà casa mia e potremo stare insieme, lui magari si farà una famiglia che stare da soli è brutto. Lo scriva, scriva che Loira è stato bravo”. Il giovane che stava appoggiato la lampione si avvicina, è macedone, giovanissimo davvero. A casa sua non ha nessuno, la mamma è morta giovane, il papà non l'ha mai avuto. Oggi vive per strada, a Montegiorgio, e cerca lavoro: “Ho una fidanzata che sta per partorire, vive con i suoi genitori. Vorrei un lavoro, uno qualsiasi, so fare il muratore”. Lo immagini, col freddo che fa la sera, cercare un posto per dormire, sbirciando le case degli altri, quelli fortunati. Un altro giovane è arrivato dal Marocco 11 anni fa, oggi l'Italia non riesce ad offrirgli altro che una roulotte in cui vivere e qualche lavoretto saltuario. Finché il lavoro c'era faceva il muratore, mandava i soldi a casa che ha una bimba di due anni, malata. Avrebbe bisogno di un posto fisso, per portare la famiglia in Italia, portare la bimba in ospedale, salvarla: “Non li vedo da un anno e 4 mesi, vorrei tanto lavorare, vorrei rivederli che mi mancano tanto. Mi chiama se c'è qualcuno che ha bisogno? Mi fate sapere se posso fare qualcosa?”. Ascolti e vorresti averli tra le mani tutti i lavori del mondo, per darli a chi senza un occupazione si sente escluso dal resto degli esseri umani. Come il quarantenne italiano, qualche problema in passato, oggi in difficoltà perché il nostro è un sistema che gli errori non te li perdona: “Ho anche la patente del camion. Non mi serve l'elemosina, non voglio regali. Voglio lavorare perché sta scritto pure nella Costituzione, o no? Altrimenti, qualcuno mi può condannare se vado a rubare per avere un futuro?”. Dunque la fame, certo, i vestiti, il bisogno di una doccia calda. Ma qui quello che serve è curare l'anima, la mancanza di un lavoro che ti toglie la dignità, quando il sistema attorno si stringe dentro una crisi che pagano sempre i più poveri. Paola Gerosa è una delle colonne del Ponte, nel direttivo da sempre, dentro un impegno nato con la Caritas. E' lei a chiedere al territorio di avvicinarsi al Ponte, servono volontari, servono materiali, serve generosità: “siamo sempre gli stessi e invece avremmo bisogno di tante forze. Le richieste aumentano sempre e vorremmo avere il tempo per accompagnare i nostri ospiti anche nei loro difficili percorsi di vita, seguirli nella ricerca di un lavoro, di una casa. Tutto non riusciamo a fare, oggi sono in tremendo aumento le richieste per i pacchi alimentari, per i pasti a casa, per le famiglie che non arrivano più da nessuna parte”. Alla mensa c'è sempre Piera, c'è chi la chiama mamma, chi la sente amica e sorella, è un po' psicologa, un'amica che però sa anche sgridarti se esageri. Un monumento vero alla generosità, gli ospiti del Ponte fanno a gara per dirle grazie, in ogni modo, con gli occhi lucidi. Oggi c'è anche Elena Ferriccioni, è arrivata qui per il servizio civile e non se n'è più andata perché ha trovato la sua strada. Ha un talento vero per ascoltare le persone e provare a capire e risolvere: “All'inizio volevo risolvere ogni problema, volevo cambiare il mondo, salvare le persone. Poi ho capito che nessuno si salva se non vuole, se non ci mette del suo. A quel punto è diventato tutto più facile e ho capito che potevo farcela”. Ci sono Lidia Martorana, occhi dolci e grande attenzione per i problemi delle persone, c'è l'ultimo arrivato, Lorenzo Ignazi, tutti e due in servizio civile. Il senso di tutto è nelle parole di uno degli ospiti che ha vissuto per tre mesi e mezzo in macchina: “Si sta male, in macchina, sei un cane randagio. Per i cani randagi è più importante una carezza che un pasto, per me era lo stesso. Qui ho trovato quella carezza e ho trovato anche una coppia di anziani che non stanno bene, mi hanno offerto una stanza per dormire e io mi prendo cura di loro come posso. Tutto grazie agli angeli del Ponte”.
Angelica Malvatani