Tutti amiamo la Giustizia e la invochiamo, tuttavia definire cos’è esattamente la Giustizia non è facile. Si potrebbe pensare che sia il rispetto delle norme, ma sorgono vari problemi: le norme stesse potrebbero non esse giuste, ad esempio essere l’espressione di gruppi di interesse dominanti, a scapito di quelli subalterni. Inoltre, come è noto, ogni legge o regola contiene in sè un certo grado di stupidità se non viene interpretata nel contesto: summum ius, summa iniuria. Alcuni sistemi giuridici, come la common law anglosassone, privilegiano per questo motivo il “buon senso” del giudice e la consuetudine, che meglio si adattano nel tempo alla percezione sociale di ciò che è “giusto”. Infine la semplice e cieca applicazione di una norma, specie in campo penale, produce effetti negativi. Per questo il diritto prevede istituti come la messa in prova, la grazia, l’amnistia, che in qualche modo contraddicono la norma in nome del valore riabilitativo del perdono e della clemenza. Il Cristianesimo associa in maniera profonda il perdono all’idea di Giustizia: rimetti a noi i nostri debiti. La norma giuridica quindi cattura con difficoltà i “valori” della Giustizia. Inoltre gli stessi principi ispiratori delle norme (quelli che leggiamo nelle Costituzioni) non sempre si “giustificano” con evidenza, anche se c’è un crescente consenso globale intorno ad una serie di inderogabili diritti umani, specie relativi alla libertà e dignità della persona. Non è sempre stato così, però: in un passato non tanto lontano, per dirne una, si considerava la tortura un mezzo legittimo di accertamento della verità o esisteva l’apartheid negli USA. Ancora oggi tradizioni culturali diverse dal mondo occidentale, come quelle islamica ed orientale, assegnano tutele assai diverse all’individuo rispetto alle esigenze collettive e sociali. Il pensiero illuminista identifica nella razionalità il fondamento della giustizia. Per Kant la Ragione umana, che è universale e trascende quella individuale, è la sorgente della giusta prassi. La Ragione è il fondamento dell’Umanità e ci dona la più alta dignità, perché siamo liberi di scegliere, mentre il mondo è dominato dalla rigida casualità delle sue leggi. La prassi si deve quindi conformare alla “legislazione universale della ragione” piuttosto che agli interessi personali ed alle passioni, che sono schiavitù che ci tengono legati alla necessità cieca della natura. Secondo l’approccio utilitarista, specie anglosassone, la giustizia corrisponde alla felicità ed è quindi giusto l’assetto in cui viene massimizzato il benessere degli individui che compongono la società, se essi esercitano liberamente la ragione per conseguirlo. In una mirabile sintesi delle due tradizioni, Rawls ha elaborato il celebre principio del “velo di ignoranza”: i principi di una società giusta ed anche le istituzioni che la governano si ricavano da un accordo, anch’esso a suo modo “trascendentale” , a cui i componenti della società arrivano “dimenticando” i propri interessi per formulare principi condivisibili da tutti gli interessati. La centralità della Ragione in queste correnti di pensiero è di grande potenza, specie se pensiamo alla miseria ed alle meschine furbizie del dibattito politico attuale, dove domina la demagogia e l’eccitazione del pregiudizio e degli istinti più bassi della gente. La tradizione illuminista e liberale è stata tuttavia sottoposta a varie critiche. In primo luogo quella marxiana, che “smaschera” la pretesa “metafisica” di un concetto oggettivo di giustizia, per collocarlo invece all’interno della dialettica storica del conflitto di classe. Anche da pensatori contemporanei, come il Premio Nobel indiano Amartya Sen, sono venuti contributi importanti, che in qualche modo riflettono anche la crescente influenza di prospettive diverse da quelle dell’Occidente. Sen ha dimostrato matematicamente l’incapacità dei comportamenti utilitaristici e razionali degli individui di produrre contemporaneamente libertà e massimizzazione del benessere e ha criticato (per dirla rozzamente) l’identità tra felicità e ricchezza. Nel suo “L’idea di Giustizia” (Mondadori, 2010) Sen ripropone il suo approccio più olistico al tema della felicità, fondandola non tanto su quello che un uomo ha quanto su ciò che è, in particolare sulle capacità di raggiungere i propri obiettivi attraverso l’effettiva libertà e consapevolezza delle scelte. Sen abbandona l’idea dei principi universali di giustizia per indicare la strada di obiettivi più circoscritti e, se si vuole, sub-ottimali, che hanno tuttavia il pregio dell’aderenza alla realtà perché tengono in considerazione le effettive capacità delle persone ed anche i loro distinti background culturali o religiosi. Ne conseguono implicazioni interessanti per l’idea di democrazia, specie nel contesto di un mondo globalizzato e multiculturale. La democrazia può produrre giustizia in quanto renda effettivi processi di confronto e decisione che esaltino lo sviluppo delle capacità degli individui e tengano conto di tutte le prospettive rilevanti. La Giustizia non scende quindi dal cielo né risiede nell’intimo dell’intelletto umano, ma scaturisce dal perseguimento incessante della libertà e dal confronto rispettoso e solidale tra gli uomini. (segue) Luca Romanelli - www.lucaromanelli.it