Eppur non si muove. Dopo le riflessioni del mese scorso, abbiamo iniziato a fare i conti con la (terza) stangata fiscale che è piovuta sulle famiglie italiane nel breve volgere di appena pochi mesi. E veramente non si riesce a capire molto del perché si sia arrivati a tanto posto che fino al mese di giugno nulla sembrava far presagire una situazione economica e finanziaria del Paese così gravemente compromessa. I mercati sembrano aver perso la fiducia sul nostro Paese tanto da far piovere ondate di vendite che hanno avuto come bersaglio preferito i titoli dello Stato Italiano con la conseguenza di abbassarne le quotazioni a livelli estremamente bassi e specularmente determinando rendimenti particolarmente elevati mentre, altri Paesi Europei, continuano a corrispondere sui propri titoli tassi decisamente più contenuti. Cosa può determinare tutto ciò? Sicuramente il disavanzo pubblico, che si prevede in pareggio per fine 2013, dovrà scontare maggiori spese per interessi che dovranno essere giocoforza bilanciate da maggiori entrate o da ulteriori tagli alla spesa pubblica. Ma siccome tra maggiori entrate e minori spese, le due manovre estive e quella ultima di dicembre hanno sottratto risorse all’economia, nei tre anni, stimate in circa 200 miliardi di euro, capite bene che grandi spazi per controbilanciare il forte rialzo dei tassi con ulteriori misure tradizionali non ve ne sono. L’aumento dei tassi sul debito pubblico italiano si trasmette molto velocemente sui tassi che debbono pagare famiglie ed imprese alle banche. Ed il meccanismo è abbastanza semplice. Infatti i risparmiatori tendono ad innalzare le proprie pretese verso le Banche, favoriti dai maggiori tassi che possono incassare dai titoli dello Stato. Le Banche, per non perdere la provvista, stanno alle richieste ed alzano i tassi pagati ai risparmiatori con l’ovvia conseguenza di dover alzare, a loro volta, tassi praticati verso i prenditori dei finanziamenti, cioè le famiglie e le imprese. E’così che le imprese italiane, per via dello spread BTP – Bund così elevato, si ritrovano a pagare tassi sempre più alti mentre, le imprese, ad esempio tedesche che il problema dello spread non ce l’hanno, continuano a pagare interessi di gran lunga inferiori. L’affanno e le difficoltà sul mercato globalizzato delle nostre imprese è quindi sempre più evidente ed ha, nello spread, una pericolosa causa contro la quale esse possono fare veramente poco. Certo, la situazione generale è assai complessa, talmente tante sono le correlazioni esistenti, che risulta difficile ipotizzare una sola soluzione che abbracci e risolva i molteplici aspetti che stanno alla radice delle odierne difficoltà. Ed a riprova della complessità basta ricordare i convincimenti dei più eminenti economisti che hanno platealmente e puntualmente sbagliato ogni previsione da alcuni anni in qua. A fine 2007 molti erano positivi e quasi nessuno previde la portata del crollo del 2008. A fine 2008 quasi nessuno previde le dimensioni del recupero borsistico del 2009. A fine 2009, ancora terrorizzati, molti previdero un double dip per il 2010 e ben pochi si avventurarono a ipotizzare quello che poi effettivamente si verificò, ovvero un secondo anno di ottimo rialzo. A fine 2010, rincuorati da venti mesi positivi, quasi tutti gli strategist abbandonarono la cautela, lanciandosi in previsioni piuttosto aggressive su un roseo 2011. Che roseo non è stato. Per quanto mi riguarda so bene che è inutile unirmi al coro di esperti. Per altro, nessuno ne sente la mancanza. Vorrei solo approfittare della gentilezza di chi ospita queste riflessioni per segnalare alcune cose che, a mio modo di vedere potrebbero essere iniziate da subito e che ritengo possano dare immediati benefici nella riduzione del famigerato Spread. Lo Stato, infatti possiede innumerevoli proprietà, assetts come vengono oggi chiamati, la cui utilità sociale o, peggio, la cui redditività, è assolutamente inesistente. Pensiamo alle aree del Demanio o agli innumerevoli immobili, spesso situati in aree di grande pregio delle Città italiane, e totalmente abbandonati dai rispettivi Dicasteri. Pensiamo all’immenso patrimonio abitativo oggi locato a condizioni assolutamente penalizzanti che, se dismesso, potrebbe favorire la piccola proprietà immobiliare da parte, non di grandi speculatori, ma dagli attuali locatari. Pensiamo alle Società Pubbliche sulle quali lo Stato paga salate sanzioni alla UE per effetto dell’anomalia della golden shere ostinatamente riservata allo Stato in barba alle norme comunitarie. Pensiamo alle Società municipalizzate troppo spesso prede e palestra della peggiore politica miope e clientelare. Insomma, credo che non ci voglia molto ad ipotizzare gli effetti positivi e propulsivi di un eventuale piano di privatizzazione delle risorse sopra brevemente elencate. Si stima in circa 300 miliardi di Euro il valore del patrimonio pubblico attualmente inutilizzato ovvero diseconomicamente utilizzato. Nessuno può predire con certezza quale sarebbe la reazione dei mercati di fronte ad un ampio piano di rilancio e di privatizzazione specialmente se destinato, non a riduzione del disavanzo, ma direttamente ad abbattimento del debito. Sicuramente scenderebbe l’offerta dei titoli pubblici alle varie aste che permetterebbe ai prezzi di iniziare una risalita tale da ridurre significativamente lo spread. Altrimenti, come confermato dalla cronaca di questi ultimi giorni, il suo tragicamente elevato valore, non si muove.