Costantino Tamanti (Petritoli, 1829 – Magnano di Tenna, 1882) Il garibaldino eroe di Villa Glori che visse il sogno di un nuovo Risorgimento. Sulla sua tomba, nel cimitero di Fermo, è scritto: «Qui giace Costantino Tamanti. Morì come visse», a sottolineare la coerenza di questo romantico idealista dell’800, nato a Petritoli il 18 agosto 1829, una delle figure più significative del risorgimento marchigiano, come bene ci ha tramandato il suo concittadino Luigi Mannocchi. Figlio di un farmacista, avrebbe forse seguito l’attività del padre se, nel 1848, non avesse deciso di assecondare con entusiasmo il suo spirito ideale e irredentista, arruolandosi volontario allo scoppio della prima guerra d’indipendenza. Al suo rientro a Petritoli, la gente lo salutò come un eroe. Ma la pausa su breve, perché entrò a far parte, con il grado di sergente, della compagnia al comando del commissario Felice Orsini partecipando alle vicende della breve Repubblica Romana. Con la restaurazione pontificia visse i successivi dieci anni in serie difficoltà, provando più volte l’umiliazione del carcere come politico pericoloso. Ma all’annunciarsi della fase finale della redenzione nazionale, corse ancora in armi arruolandosi nella Brigata Forti, dove prestò servizio a tutto il marzo 1861, fino alla proclamazione dell’unità nazionale. Scrisse il colonnello Mossori che «Tamanti fu tra i più intrepidi durante la battaglia di Mentana».
Nel 1866, posto in congedo con il grado di tenente, gratificato da riconoscimenti e onori militari, tornò nuovamente a Petritoli, ma ancora per poco: garibaldino, nel 1867 meritò la fama con i fatti di Villa Glori, dove fu tra i settanta votati alla morte, salvandosi soltanto per il suo grande coraggio e sprezzo del pericolo. Fatto prigioniero rischiò la fucilazione ma, insieme agli altri ufficiali, ebbe la grazia come riconoscimento del suo valore. Rientrato a vita privata, andò ad abitare a Magliano di Tenna, sognando di poter ancora combattere per i suoi ideali. Di portamento fiero, dalla lunga barba incanutita, forse schivo rispetto alla gente del posto, fu battezzato simpaticamente «Mago Sabino». Continuò a professare le sue idee, ma non riuscì mai a suscitare l’impegno di chi aveva vicino, a dare vita al quel sognato «partito del popolo» che rappresentò lo scopo finale della sua vita, e che egli sognava nelle battaglie elettorali e rivoluzionare. Non riuscì nemmeno a ottenere, lui che da soldato aveva sacrificato i migliori anni e la giovinezza per costruire la patria, il modesto vitalizio riservato dal governo ai reduci, costretto per questo a una vita povera e senza onori. Malato di cuore, morì il 16 giugno 1882, pochi giorni prima del suo generale Giuseppe Garibaldi. Riuscì ad avere una tomba grazie all’interessamento dei pochi amici. Il circolo anticlericale di Petritoli gli dedicò una lapide che, rifiutata dal Comune, fu apposta su una casa privata.